Istituito nel 1384 per iniziativa di Giovanni Varano, originariamente come Monastero di Santa Maria Nova, quello che oggi è il Monastero di Santa Chiara sorge a Camerino (MC). Splendido nelle sue architetture e ancor più nella sua spiritualità, il monastero ha passato - potremmo dire indenne nella sostanza - le traversie di una storia fatta anche di difficoltà e ostilità.
Al monastero è legata l'opera spirituale e materiale di santa Camilla Battista Varano, nipote del fondatore, canonizzata durante il pontificato di Benedetto XVI, «presenza e testimonianza autentica della bellezza di appartenere a Cristo, povero e crocifisso».
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Chiunque preghi abitualmente lo sa bene: la preghiera rischia presto di diventare abitudine, spesso meccanica. Come si può dunque mantenere desto il fervore spirituale?
La preghiera è fatta di slanci del cuore e formule fisse e chi si incammina su questo sentiero sa che ci si deve servire anche di quest'ultime se non si vuole che presto lo spirito evapori. È un equilibrio da trovare tra questi due aspetti, uno più spontaneo e l'altro più meccanico. Pregando ci si accorge che la disposizione sincera del cuore e i capricci del nostro umore non sempre vanno d'accordo, e che le azioni libere che sgorgano dall'intimo si devono conquistare con dura lotta e perseguire ogni giorno con fedeltà innovata.
Chi fa esperienza di questo, riconoscendosi piccolo, distratto e inesperto, accetterà con gratitudine e umiltà lo "strumento" delle formule fisse - senza paura di scadere in qualcosa di meccanico - sapendo che esse ci possono aiutare a raggiungere quel "pensare spesso Dio" che è la preghiera. Sono uno strumento brevettato ed efficace e si sa che i veri maestri di un'arte si servono spesso degli strumenti più semplici.
Afferma Karl Rahner (gesuita e dibattuto teologo tedesco novecentesco, NdR): «Esse sono una professione di fede, sono l'incarnazione del sì interiore, la sua espressione e la sua forza nello stesso tempo. Le si può considerare una piccola parte dell'umile servizio in cui la grazia di Dio e la sua azione nell'intimo del cuore assumono una manifestazione esterna senza la quale il cristianesimo interiore esiste solo a metà». E per fede non stancarsi, per speranza ricominciare, per povertà restare lì, per amore non arrendersi, per ostinazione non lasciarsi impressionare dal suo silenzio: Lui è lì e Lui è Dio. Lui ama in silenzio e noi amiamo gridando: a ognuno la sua voce, il suo linguaggio per dichiarare l'amore. Non come qualcosa di meccanico, ma come gesti di fede, speranza ed amore, tradotti in altrettanti atti della volontà, slanci del cuore.
Presso il convento delle Clarisse di Camerino è stato rinvenuto tempo fa un Bambinello prodigioso, legato alla vita di preghiera di Santa Camilla Battista, nell'atto di invitare al silenzio. Come recuperare questo silenzio, proprio quando la preghiera sembra divenire nella nostra mente un accavallarsi di parole, distrazioni e tiepidezza?
Dio chiama sempre e irresistibilmente all'esperienza della sua intimità nella preghiera e il luogo di questa chiamata è, ieri come oggi, il deserto. E come vivere questo deserto per chi abita in città? Il deserto è fondamentalmente il luogo del silenzio, è l'esperienza del silenzio, dove l'uomo è costretto a guardarsi dentro, a restare solo con sé stesso e con Dio. Spesso ci "riempiamo" di gesti e di parole, di cose da fare, quasi a fugare l'angoscia che incombe non appena ci fermiamo. Ma c'è un altro modo di vivere, e ciò accade solo quando si sceglie il silenzio, lo si accoglie, lo si fa proprio fino a scoprirne la dimensione di "soglia" verso qualcosa di più grande.
Il silenzio predispone all'ascolto, è il necessario spazio che dobbiamo fare in noi perché gli altri, gli eventi, la vita, Dio stesso ci parlino. Anche se spesso il silenzio è lacerante, è una delle realtà più difficili e aspre da vivere, ma proprio per questo diventa un mezzo privilegiato per l'ascolto della Parola e per l'incontro con Dio. Il silenzio quindi è indispensabile per porsi in un coraggioso faccia a faccia con sé stessi che prepari l'incontro faccia a faccia con Dio. Esso è lo scavo necessario, perché immersi nel frastuono e nel caos dei nostri ritmi frenetici, riusciamo a far emergere tutta la ricchezza della nostra umanità e dell'incontro con Dio.
Come conciliare, allora, le nostre "giornate di città", con il silenzio e la solitudine, con l'ascolto e la vita interiore alla quale il Signore ci invita? Imparando a ritagliarci degli spazi di silenzio all'interno del nostro quotidiano, nei quali - chiusa la porta della propria camera - far decantare l'insieme frenetico dei sentimenti, delle voci, delle sensazioni che occupano l'animo di ogni giorno e intessere con Dio un dialogo fiducioso, per scoprire sempre di nuovo la nostra dimensione più vera e autentica di uomini e donne capaci di silenzio e di parola, di solitudine e di vicinanza, non in "fuga da" ma in "relazione con".
Non basta un momento: è necessario uno spazio che consenta di scendere nel profondo di sé. Il silenzio incomincia con l'assenza delle parole proprie, ma esige anche il tacere degli altri, lo smorzarsi progressivo di ogni richiamo interno ed esterno; il silenzio non è portata di mano, chiede di essere scelto e accolto. Allora non diremo più "deserto o città", ma "deserto nella città", conciliando i due estremi con equilibrio, consapevoli della necessità di tenere insieme ciò che solo apparentemente sembra inconciliabile.
Un passaggio spinoso: cosa fare quando, specie nella difficoltà, si sperimenta l'apparente lontananza di Dio? Si può arrivare ad "arrabbiarsi" durante la preghiera, a "lottare", a "discutere" con Dio?
La prova è l'azione di Dio che scava nel fondo del cuore dell'uomo, a volte con energia abrasiva, per purificarlo e renderlo saldo. Lì, nel profondo di noi stessi, nell'ascolto del nostro cuore, possono emergere le motivazioni autentiche che ci guidano. In queste situazioni occorre imparare a integrare le difficoltà all'interno del proprio cammino di fede. Per riprendere le parole di Paolo è questo il momento di ridire a sé stessi: Io so in chi ho posto la mia fede (2Tm 1,12). Questo "sapere" non è puramente intellettuale, ma coinvolge tutta la persona, è un sapere del cuore, è quel fuoco interiore che arde senza consumare. Il momento critico è, allora, anche il momento per ritrovare la propria intima verità. Lo stesso profeta Elia, nell'ora della prova, si scaglia contro Dio e arriva a desiderare di morire. Ma nel deserto della vita, Elia non diserta la relazione con Colui che è la vita. Anzi, si inoltra ancor di più nel deserto stesso: simbolicamente, Elia va a fondo nella sua crisi, della sua sofferenza.
Spesso i fallimenti, gli smarrimenti, la perdita di senso o di persone care, la malattia, le cadute, sono gli eventi della vita attraverso i quali Dio apre una breccia nella corazza che noi rivestiamo, provoca in noi una ferita che diviene lo spiraglio, la feritoia, per il raggio della grazia, il terreno fecondo su cui la parola ascoltata può germinare e fruttificare. La prova, assunta nella preghiera, lasciata lavorare nel profondo del cuore, diviene lo spazio della vera conversione, della rinnovata esperienza di Dio che segna il passaggio a una fase più matura della vita e della fede, da un'esperienza di fede sostanzialmente esteriore, alla conoscenza della presenza interiore di Dio.
Quindi se in questi casi la preghiera assume il volto della lotta, della rabbia, della rassegnazione o dell'invettiva contro Dio, non dobbiamo spaventarci, né tantomeno pensare che non sia un'autentica esperienza di fede. Non abbiamo aver paura di gridare come Giobbe il "contestatore fedele", capace di prendersela con Dio - per amicizia e confidenza infinita - per oltre trenta capitoli, per arrivare a dire alla fine, stremato: Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono.
Sant'Agostino amava ricordare (*) che "chi canta prega due volte". Cosa ne pensa?
(*) così l'Ordinamento Generale del Messale Romano, II, 39, riassumendo la ricezione nella Chiesa del pensiero di Agostino d'Ippona: Perciò dice molto bene sant'Agostino: «Il cantare è proprio di chi ama» [Sermo 336,1: PL 38, 1472.], e già dall'antichità si formò il detto: «Chi canta bene, prega due volte»
Penso che sia vero. La musica è un linguaggio, è una espressione importante. La nostra preghiera infatti, nella sua semplicità, è sempre cantata proprio perché la musica con la sua bellezza aiuta a nutrire ed esprimere la fede. I nostri sensi non sono solo la vista, il tatto, il gusto ma c'è anche l'udito, che spesso dimentichiamo, e che non può non essere coinvolto nella preghiera.
Ad una giovane che si sente chiamata da Dio, ma non sa ancora bene in quale modo, cosa consiglierebbe?
Il suggerimento ci viene direttamente dal Vangelo, quando Gesù racconta l'esperienza di quel contadino che improvvisamente, immeritatamente, al di là di ogni suo progetto, si trova tra le mani un tesoro preziosissimo nascosto sotto la terra del campo nel quale lavorava. Allora, racconta Gesù, và, pieno di gioia e vende tutto ciò che ha per comprare quel campo.
Ecco allora l'augurio che farei ad una giovane che intuisce che il Signore ha seminato qualcosa di grande nel campo del suo cuore: lascia che la gioia per il dono ricevuto ti spalanchi alla gratitudine nella restituzione altrettanto gioiosa e libera, là dove il Signore ti chiamerà, certa che quello che dovrai vendere per comprare quel campo non sarà mai altrettanto prezioso come il tesoro trovato.
Ma vorrei aggiungere una cosa importante: spesso noi facciamo fatica a riconoscere il passaggio del Signore nella nostra vita e i nostri occhi non sempre sono in grado di capire la preziosità del tesoro incontrato, per questo è indispensabile lasciarsi aiutare nel discernere che cosa il Signore veramente vuole, quale tesoro ha preparato per me, quale il campo in cui mi vuole condurre... Per questo è bene sempre lasciarsi accompagnare da un fratello o una sorella maggiore che abbiano già fatto questo tipo di scelta e che per questo mi possano aiutare a "decifrare" i segni che il Signore ha posto nella mia vita.
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